Kristin Harila, norvegese Sami classe 1986, il 27 luglio scorso ha rubato il record di velocità sui 14 ottomila a Nirmal Purja, mettendoci tre mesi e due giorni a scalare tutte le vette più alte del mondo – contro i sei mesi e sei giorni di Nimsdai. Ma si è anche posta un altro obiettivo al limite dell’impossibile: rendere l’alpinismo uno sport egalitario, in modo che le donne possano viverlo ed esservi rappresentate allo stesso modo degli uomini. Come? Ce lo siamo fatti raccontare con qualche domanda.
Ciao Kristin. Per cominciare, com’è nato il progetto?
Mi è sempre piaciuto stare fuori e fare attività all’aperto, anche se in realtà non ho mai praticato alpinismo fino al 2015 – l’anno in cui ho scalato il Kilimangiaro. Non è stato facile, ho avuto problemi con l’altitudine. Ma è stata un’esperienza incredibile che mi ha fatto rendere conto che avevo necessità di passare più tempo fuori. Così, nel 2019, mi sono licenziata, ho preso un anno sabbatico e sono partita per il Nepal. Lì, ho visto l’Everest e ho semplicemente deciso che l’avrei scalato.

Come ti sei approcciata alla montagna più alta del mondo?
Intanto ho dovuto, come tutti, fare i conti con la pandemia. Nel 2020 mi è stato impossibile partire e sono rimasta in Norvegia ad allenarmi. Finalmente, nel 2022, ho visto i primi risultati: ho scalato in meno di 12 ore l’Everest e il Lhotse.
Dopo quest’impresa mi trovavo a Katmandu e mi sono resa conto per la prima volta che l’alpinismo non è uno sport equo. Stavo cercando del materiale per le spedizioni e non sono riuscita a trovare una tuta della mia misura: erano tutte taglie da uomini e anche la più piccola mi stava molto grande. Ho notato che anche i brand internazionali producono tendenzialmente vestiti per uomini – facendo così passare il messaggio che le donne possono fare trekking, ma l’alpinismo d’alta quota è riservato al genere maschile. Questi stessi brand supportano al 90% solo atleti maschi, e anche quando sponsorizzano donne, queste vengono pagate molto meno – me compresa.

Da quel momento come ti sei mossa per risolvere questo problema e per affrontare il record?
Intanto dovuto farmi fare una tuta su misura a Katmandu. Ed è solo uno dei paradossi di questo sport. Per esempio nel mio gruppo sull’Everest tutte le donne hanno raggiunto la cima, cinque su cinque; mentre degli uomini solo sei su quattordici. Nel complesso le donne erano molto più preparate mentalmente e fisicamente, mentre gli uomini avevano quasi tendenza a sottovalutare l’impresa, dicendosi che ce l’avrebbero fatta e basta.
Riguardo al record, invece, sapevo bene cos’aveva fatto Nims nel 2019 e la risonanza che aveva avuto. Così, quando mi sono chiesta: come posso cambiare le cose?, la risposta è stata semplice: dimostrando qualcosa. Ho scelto un record inequivocabile proprio per dimostrare quanto può essere forte una donna.

Come ti sei allenata e in che modo hai mantenuto la motivazione?
Le montagne che ho scalato tra il 2021 e il 2022, molti 6000 e 7000, mi hanno aiutata. In Norvegia mi sono allenata a stare fuori diversi giorni di fila affrontando itinerari molto duri.
Volevo davvero farlo e fin dall’inizio ho creduto profondamente che sarei arrivata su tutte le cime. Tuttavia non penso che il record sia così importante – almeno, non lo è per me: lo è adesso, per cambiare qualcosa, perché dopo il record è più facile rendere questo sport più egalitario. Il significato che posso dare al record sta nel fatto che lo condivido con Lama (Tenjen Lama Sherpa, ndr). Per lui e per gli altri sherpa è importante avere il record all’interno dello Sherpa Team. Tutti, sugli 8000, dipendono dal loro lavoro.

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