Per essere “sostenibili” bisogna essere trasparenti e responsabili

Green & Charity Market
8 Giugno 2023
In evidenza uno scatto di una discarica selvaggia di vecchi vestiti ad Alto Hospicio, Cile (26 settembre 2021)

Essere responsabili, in termini di rispetto ambientale e sociale, ora più che mai, è diventata una caratteristica imprescindibile. Soprattutto nel mondo della moda. Infatti, questo settore risulta essere tra i più inquinanti al mondo, producendo tra il 4% e il 15% delle emissioni globali di CO2. E il 70% dei tessuti sono costituiti da derivati del petrolio e solo l’1% viene riciclato veramente, il resto viene buttato in discarica. Inoltre, come se non bastasse, l’abbigliamento è la maggior fonte di microplastiche nei mari (35%) e si stima che se si continua per questa strada, nel 2050 ci sarà più plastica che pesci. Un’industria che, quindi, consuma e inquina ma sempre più, sia le aziende che il consumatore, sono consapevoli. Quello della “sostenibilità” è un processo lungo e travagliato che però, un giorno, consentirà alla Terra di vivere una vita migliore. Più green.

Possiamo ancora parlare di moda sostenibile?

Il 7 giugno, un giorno prima della Giornata mondiale degli oceani, ClimatePartner ha tenuto un webinar riguardante il tema della sostenibilità nel mondo della moda, moderato da Francesca Milani, commercial sustainability manager. A intervenire durante l’evento sono stati cinque relatori: Silvia Andreani (fashion & luxury client officer IPSOS), Luca Bruschi, (sustainability manager di Successori Reda), Marco Lucietti (director strategic projects di ISKO), Mauro Simionato (creative director & fashion consultant di Vitelli) e Liyenne Cavalheiro (sustainability consultant phd Earth Science di ClimatePartner). Proprio loro hanno raccontato le soluzioni concrete per ridurre l’impatto sull’ambiente e hanno spiegato come la moda può essere più responsabile.

Garantire trasparenza e credibilità

ClimatePartner aiuta i propri clienti a calcolare e ridurre le emissioni di carbonio, supportandoli nel finanziamento di progetti per il clima con lo scopo di far raggiungere a prodotti e aziende la neutralità climatica. L’obiettivo è quello di garantire trasparenza e credibilità ai partner attraverso la certificazione “ClimatePartner”. In tal senso, i consumatori possono utilizzare un numero di tracciamento per identificare le misure per la riduzione, il progetto di compensazione delle emissioni scelto, la quantità di CO2 compensata e molto altro.

Quali sono le sfide dei brand verso i consumatori?

Rispetto a qualche anno fa, ci sono buone notizie. Secondo un’indagine di Ipsos, l’80% degli italiani è convinto che se le proprie abitudini non verranno cambiate velocemente, si andrà incontro a un disastro ambientale sempre più drammatico. Inoltre, il 49% dei consumatori è disposto a pagare di più un brand di moda etico e green e il 92% smetterebbe di acquistare un marchio che si è rilevato privo di standard etici. Risulta, quindi, ovvio che il cliente è sempre più attento alle tematiche di sostenibilità a 360°, è responsabile e consapevole.

Ma quindi qual è il problema? In Italia, solo una persona su quattro sa riconoscere i prodotti attenti alle tematiche ambientali e sociali. E per questo, è sempre più difficile essere consapevole, nonostante la volontà a essere più responsabile.

Sicuramente i brand non stanno facendo abbastanza. Non sono trasparenti. E anzi, talvolta costruiscono un’immagine di sé ingannevolmente positiva sotto il profilo dell’impatto ambientale, dando vita a una strategia di comunicazione che conosciamo bene: il greenwashing.

Ma non si tratta solo di questo. Si sta assistendo a molti altri fenomeni. Come il Greencrowding, cioè “nascondersi nel mucchio per non farsi scoprire”, il Greenlightning, ovvero “mostrare la parte ‘pulita’ per non attirare l’attenzione su ciò che è rischioso” e il Greenrinsing, ovvero “cambiare continuamente ESG target prima di averli raggiunti”. Ma anche il Greenshifting e il Greenhushing, che rispettivamente significa “spostare l’attenzione sul consumatore, dandogli la colpa” e “nascondere le proprie azioni positive sostenibili per evitare controlli”.

Cosa posso fare i marchi?

Si può notare, quindi, l’insoddisfazione del consumer in merito a queste tematiche e il 50% pensa che non si è ancora fatto abbastanza nel supportare le buone pratiche in ambito etico. Il cliente è disilluso e scettico verso ciò che i brand stanno comunicando, è soggetto a una narrazione poco ingaggiante ed è disorientato. Tutte caratteristiche che lo portano a non cogliere il valore del prodotto.

Per poter migliorare questa situazione, comunque, i marchi possono davvero fare qualcosa. In primis, pagare i lavoratori in modo equo e fornire condizioni di lavoro salubri. Ma essere trasparenti rispetto a dove e come vengono realizzati i capi è la chiave. Solo essendo trasparenti si rende il consumatore più consapevole e cosciente di ciò che sta comprando. E in questo modo, sarà in grado di capire da solo quale prodotto è meglio acquistare.

di Sara Fumagallo

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